L'agenzia delle Entrate affidava il ricorso a tre motivi: «Con il primo motivo di ricorso principale l'Agenzia delle entrate denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 54 D.Iva, della sesta direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977, dell'art. 53 Cost. e dei principi in materia di abuso del diritto. Premesso che la C.t.r. ha correttamente inquadrato la contestazione fiscale nell'ambito dell'abuso del diritto, la difesa erariale osserva che il giudice di appello ha, però, focalizzato la sua attenzione sull'esistenza formale delle operazioni poste in essere e non sulla consistenza e ragione economica ad essi sottesa. Laddove, le norme di riferimento, se correttamente applicate avrebbero dovuto condurre ad evidenziare l'esclusivo scopo di risparmio fiscale.
Con il secondo motivo di ricorso principale l'Agenzia delle entrate denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 54 D.Iva degli articoli 2697 e 2729 cod. civ. laddove la sentenza d'appello pare richiedere una "conoscenza necessaria, univoca e sicura", ovverosia la prova piena e diretta dell'addebito fiscale mentre il potere di accertamento è correlato a prove ancorate a indizi ancorché gravi, precisi e concordanti, da valutare globalmente.
Con il terzo motivo di ricorso principale l'Agenzia delle entrate denuncia vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria laddove la C.t.r. si limita ad affermare che "...Cirio Finanziaria ha dimostrato ampiamente che le presunzioni poste a fondamento delle pretesa avanzata nell'atto impositivo sono prive dei requisiti dei requisiti di gravità, pressione e concordanza" senza in alcun modo indicare gli elementi in base ai quali giunge a tale convincimento».
La Suprema Corte rileva che «La sentenza d'appello si muove promiscuamente sui versanti dell'interposizione di persona giuridica e dell'abuso del diritto con sovrapposizione di argomenti fattuali e giuridici. Invece, spetta al giudice di merito il compito di selezionare il materiale probatorio e da esso ricavarne, con motivazione logicamente e giuridicamente corretta, l'esatta qualificazione della fattispecie fiscale».
Poi il Collegio precisa i contorni dell'interposizione personale fittizia, che inquadra nel fenomeno della simulazione relativa: «Anche in tema d'IVA, l'accertamento dell'interposizione soggettiva comporta, ai sensi dell'art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, il prevalere della situazione effettivamente perseguita su quella strumentalmente posta in essere, facendo ricadere sul reale titolare della situazione tributaria tutti gli effetti delle operazioni compiute dall'interposto (Cass. 27964/09). La disciplina antielusiva dell'interposizione, non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l'applicazione del regime fiscale che costituisce il presupposto d'imposta. Ne deriva che il fenomeno della simulazione relativa, nell'ambito della quale può ricomprendersi l'interposizione personale fittizia, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo mediante operazioni effettive e reali (Cass. 12788/11, 449/13, 25671/13, 21794/14)».
La Cassazione ricorda poi che l'onere della prova in tema di simulazione spetta all'Ufficio: «L'Amministrazione finanziaria, qualora invochi, ai fini della regolare applicazione delle imposte, la simulazione relativa di un contratto stipulato dal contribuente, non è dispensata dall'onere della relativa prova, che, in quanto terzo, può fornire con ogni mezzo, anche mediante presunzioni, fermo restando che la stessa deve riguardare non solo elementi di rilevanza oggettiva, ma anche dati idonei a rilevare in maniera convincente i profili negoziali di carattere soggettivo che si riflettono sugli scopi perseguiti in concreto dai contraenti (Cass. 1568/14)».
E ancora: «Diversamente, integra gli estremi del comportamento abusivo quell'operazione economica che - tenuto conto sia della volontà delle parti implicate, sia del contesto fattuale e giuridico - ponga quale elemento predominante e assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale se quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi d'imposta (Cass. 25972114, p.9.1). La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato (Cass. 1465/09) e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull'Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l'onere di allegare l'esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate. Inoltre non è configurabile l'abuso del diritto se non sia stato provato dall'ufficio il vantaggio fiscale che sarebbe derivato al contribuente accertato dalla manipolazione degli schemi contrattuali classici (Cass. 20029/10). Dunque, il carattere abusivo, sotto il profilo fiscale, di una determinata operazione, nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale (Cass., sez. un., 30055/08 e 30057/08; v. C. giust. UE nei casi 3M Italia, Halifax, Part Service), presuppone quanto meno l'esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell'obiettivo economico perseguito (Cass. 21390/12, p.3.2) e si deve indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco (Cass. 4604/14)».
Quindi la Suprema Corte affronta il tema del valore probatorio degli indizi allegati dall'Ufficio: «per la corretta applicazione dell'art. 2729 cod. civ., invocato dalla difesa erariale, occorre che il giudice di merito valuti nel dettaglio i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza degli elementi offerti in giudizio. La scorretta valutazione di essi, in quanto operata senza il rispetto dei criteri di legge, non integra un giudizio di fatto, ma una vera e propria valutazione in diritto soggetta al controllo di legittimità (Cass. 9760/15 e 19894/05; conf. Cass., sez. un., 8054/14)».
Sul punto, il Collegio richiama precedenti decisioni, e così spiega: «Il procedimento che, riguardo alla prova per presunzioni, si sarebbe dovuto seguire nella specie, si articola in due momenti (Cass., sez. un., 584/08). Prima il giudice d'appello avrebbe dovuto valutare analiticamente ognuno degli elementi indiziari (sopra indicati) per scartare quelli eventualmente privi d'intrinseca rilevanza e, invece, conservare quelli che, presi singolarmente, hanno i caratteri della precisione e della gravità, ossia presentano una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria. Poi, il giudice d'appello avrebbe dovuto procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire quella valida prova presuntiva, che, considerando atomisticamente uno o alcuni indizi, forse non potrebbe dirsi raggiunta con certezza. è, pertanto, viziata da errore di diritto e censurabile in sede di legittimità la decisione in esame nella quale il giudice d'appello si è limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand'anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non siano in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento».
Nell'accogliere il ricorso, il Collegio cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione per una nuova pronuncia.